Ringrazio innanzitutto tutti i compagni che hanno accettato il mio invito a discutere sul tema del rapporto tra Educazione ed Emancipazione Sociale: riservando al prossimo numero una mia riflessione sull’interessante articolo di Nicholas Tomeo inizierò a rispondere a Cosimo Scarinzi, e nel farlo proverò ad approfondire una delle domande con cui concludevo il mio primo articolo: quali sono gli inganni ideologici con cui, negli ultimi anni, i “portatori di interessi” dell’ignoranza di massa hanno svuotato di sostanza effettiva l’insegnamento pubblico, mascherando le proprie politiche reazionarie dietro idee apparentemente volte in direzione contraria, talvolta utilizzando e dirottando verso i propri interessi anche idee care alla sinistra radicale. In questo campo i meccanismi ideologici sono stati molteplici: quest’articolo è dedicato a quello che potremmo chiamare il “don milanismo” del potere. Prima di affrontare il tema, però, credo siano necessari alcuni chiarimenti concettuali.
Durante il XIX secolo ed anche all’inizio del XX, all’interno del pensiero anarchico era tipica – si pensi solo ai “tre grandi nomi” dell’anarchismo come Bakunin, Kropotkin e Malatesta – la distinzione tra “autorità” ed “autoritarismo”. La prima cosa, intesa come un oggettivamente superiore bagaglio di competenze che una determinata persona possiede in un determinato campo era benvenuta ed anzi fondamentale per la vita quotidiana della società liberata dal dominio che si auspicava; la seconda, intesa come la pretesa di una persona di avere il controllo sui processi della vita sociale indipendentemente dall’altrui volontà, era la relazione sociale e politica da combattere per eccellenza in tutte le forme in cui si presentava. Un tema che, con varie denominazioni, si protrae nel pensiero anarchico fino ai nostri giorni – si pensi alla distinzione chomskyana e graeberiana tra “autorità legittima” ed “autorità illegittima”[1] – così come la critica alla confusione che il potere tende a fare tra le due cose.
Una tale distinzione è chiaramente applicabile a tutti i campi della vita sociale – strutture educative comprese. Nel processo educativo è infatti ovvio che – in linea di principio e fatte salve le eccezioni statistiche – vi sia una autorità nel senso funzionale della parola: una persona cioè che conosce determinati spazi di sapere meglio e più approfonditamente degli individui cui li insegna e che, inoltre, è spesso dotata di una talvolta notevole esperienza pratica e teorica nei processi di trasmissione di questo stesso sapere. L’“esercizio legittimo” di una tale autorità consiste pertanto in tutti gli atti volti al più efficace passaggio di conoscenze da lui agli allievi, con l’obiettivo ideale finale di mettere alla pari i livelli di competenze. Come suol dirsi da millenni, il sogno del bravo maestro è vedersi superato dall’allievo; come ha fatto notare più recentemente Graeber, l’insegnamento è un’attività sociale che mette in atto gerarchie funzionali allo scopo di distruggere le gerarchie sociali e le stesse gerarchie funzionali iniziali.
Un “esercizio illegittimo” di questa stessa autorità consiste, invece, in tutte le richieste di subordinazione inessenziali allo scopo dell’insegnamento. Per fare esempi banali, la richiesta di non disturbare la lezione è funzionale allo scopo educativo, mentre quella di alzarsi in piedi all’entrata del docente in aula evidentemente non lo è. Per fare un esempio meno banale di utilizzo legittimo dell’autorità funzionale del docente, la richiesta dell’impegno nello studio e la valutazione dei risultati di tale impegno; proprio su questo punto, però, il potere politico portatore dell’interesse dell’ignoranza di massa ha fatto perno allo scopo di depotenziare il più possibile l’insegnamento e la trasmissione del sapere.
Indubbiamente, infatti, l’impegno nello studio è faticoso ed i processi di feedback valutativo mantengono sempre un qualche livello di stress psicofisico. Ora, fatica e stress sono immediatamente percepibili, al contrario dei vantaggi che la conoscenza porterà sul lungo termine: in altre parole, per comprendere i vantaggi effettivi della conoscenza occorre già possederla, cioè essersi sottoposti alla fatica dell’apprendimento ed allo stress della valutazione.
Un solo esempio concreto, che tocca da decenni la vita di ciascuno di noi: sono appunto decenni che i vari governi piangono miseria, chiedono sacrifici alla popolazione – quella lavoratrice, ovviamente, al ricco non si chiede un centesimo, anzi gli si dà ulteriormente qualcosa per “il bene collettivo” – tagliano insomma i redditi, i servizi sociali ed i diritti sindacali perché a loro dire saremmo di fronte ad un deficit del bilancio statale spaventoso, da risanare ad ogni costo. Da decenni, immancabilmente, anno dopo anno, “cura” dopo “cura”, il deficit di cui sopra aumenta e ci ripropongono nuovi sacrifici, il deficit aumenta di nuovo…
Intendiamoci: in mancanza di un’opposizione sociale forte probabilmente queste politiche ce le imporrebbero comunque; il problema cioè non è che ci stanno prendendo evidentemente per i fondelli e che la “cura” non è per niente tale, ma che la maggioranza della popolazione immiserita da queste politiche acconsente ideologicamente ad esse applaudendo al taglio della spesa pubblica, alla “riduzione” delle tasse e quant’altro, rendendo enormemente più facili tali operazioni di macelleria sociale. La stragrande maggioranza della popolazione immiserita se la prende con gli immigrati e con gli stipendi dei parlamentari – dati i parametri quantitativi della ricchezza in gioco e della sua distribuzione, è come se vedessero nel fumo delle sigarette l’unica causa dell’inquinamento dell’aria. Ora, un talmente diffuso inganno ideologico può essere stato portato avanti soltanto riducendo ai minimi termini i livelli di conoscenza sia di dati fattuali, sia del metodo scientifico, sia di logica elementare, sia degli elementi della macroeconomia.
In altre parole, occorre aver ridotto al minimo indispensabile gli elementi della popolazione in grado di decodificare gli inganni del potere, perché, anche se non tutti possiamo – ovviamente – sapere tutto, però un processo educativo decente porterebbe ad una diffusione nei vari gangli della società di un numero sufficiente di persone in grado di compiere quest’operazione, dapprima in prima persona e poi passando il loro sapere agli altri, sia pure in forma divulgativa.
Arriviamo qui al “don milanismo” del potere che annunciavamo all’inizio di quest’articolo, cominciando con lo sgomberare il campo da un possibile equivoco: posso tranquillamente pensare che Don Milani fosse in perfetta buona fede e che il suo obiettivo fosse appunto quello di ampliare quantitativamente e qualitativamente il sapere delle classi povere – l’inferno, però, è, come suol dirsi, lastricato di buone intenzioni ed il suo pensiero è non da oggi utilizzato dal potere per togliere ogni accesso ad una conoscenza di buon livello non solo alle classi povere, ma anche a quelle proletarie e piccolo/medio borghesi. Ora, l’argomentazione sviluppata da Don Milani nel suo celebre testo Lettera ad una Professoressa è abbastanza nota: qui mi soffermerò sul rapporto tra educazione e valutazione che, a mio parere, anche se non da solo, è centrale per capire il “don milanismo” del potere.
Don Milani parte da una constatazione e da un’affermazione giusta – i figli delle famiglie meno abbienti vengono umiliati nell’istituzione scolastica a favore dei figli delle famiglie che hanno potuto offrire ad essi un ambiente pre ed extrascolastico migliore ai fini dell’apprendimento e questa cosa va combattuta. Sacrosanto. Il problema è quello che viene dopo: Don Milani, infatti, dopo quest’analisi, propone metodi di valutazione differenziati per gli alunni provenienti da differenti ceti sociali, in modo da non bocciare nessuno. Il problema è che in questo modo si cristallizzano le differenze sociali invece di superarle: come dicevamo all’inizio, lo studio è faticoso ed i processi di valutazione sono stressanti, ma solo ricercando da parte di tutti – ultimi compresi – i “saperi massimi”, con fatica e stress, si possono annullare le differenze sociali. Don Milani aveva detto la famosa frase “L’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo è lui il padrone”: la sua ipotesi, però, di fatto impediva a chi ne conosceva solo cento di imparare le altre novecento.
Qui il potere ha colto la palla al balzo, utilizzando da un lato i sensi di colpa degli insegnanti di sinistra che temevano di essere considerati classisti se facevano banalmente il loro mestiere, dall’altro l’appoggio delle masse scolarizzate che vedevano in tutto ciò una diminuzione del carico di lavoro, senza capire la fregatura che gli stavano propinando. Rileggendo oggi non solo le grandi riforme scolastiche ma soprattutto le miriadi di circolari ministeriali che le hanno sostanziate e spesso ancor di più peggiorate, l’altra celebre frase di Don Milani “Perché il sogno dell’uguaglianza non resti un sogno, vi proponiamo tre riforme: 1- Non bocciare 2- A quelli che sembrano cretini dargli la scuola a tempo pieno 3- Agli svogliati basta dargli uno scopo” oggi non può che far venire un brivido nella schiena a tutti coloro che lavorano ad ogni livello del mondo dell’educazione. Davvero le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni e lo spazio di quest’articolo mi impedisce di analizzare, cosa che sarebbe assai istruttiva, molti altri aspetti del pensiero di Don Milani, mostrandone l’aspetto di – ripeto involontario – supporto ideologico alle politiche classiste del potere.
Da questo punto di vista, la costruzione dell’inganno ideologico è stata facile, portando all’obiettivo del potere nell’epoca della tendenziale ma abbastanza prossima proletarizzazione del 99% dell’umanità: una scuola di massa ma dequalificata, dove statisticamente usciranno comunque un po’ di persone con una preparazione decente ed utile alla produzione ed il resto saranno analfabeti funzionali, esclusi dall’accesso a quelle forme di conoscenza che gli permetterebbero di capire l’essenza del potere ed i suoi inganni, agendo di conseguenza.
Enrico Voccia
NOTE
[1] Questo tema ha avuto inoltre una certa risonanza, talvolta probabilmente inconscia, anche fuori dall’anarchismo, nelle scienze sociali e persino in quelle cosiddette “dure” – si pensi alla distinzione tra “gerarchia d’attuazione” e “gerarchia di dominio” nella cibernetica degli inizi che, partendo dalle ipotesi di una sostanziale analogia tra i meccanismi di regolazione delle macchine e quelli degli esseri viventi, distingueva le gerarchie volte all’attuazione di uno scopo (ad esempio, in campo umano, l’autorità gerarchica del capostazione ferroviario, volta al fine di far svolgere al meglio il servizio ed evitare che i treni si scontrino e la gente muoia) dalla gerarchia politica solitamente intesa (ad esempio quella di un governo che decide quali tipi di treni far viaggiare e quali no, quali tratte mantenere e quali sopprimere, ecc).